MARIO MUCCINI
Ed ora, andiamo ! Il romanzo di uno "scalcinato"



Stralcio dal capitolo 5 (da pagina 173 a pagina 179)




Lo incontro nel camminamento che conduce alle bombarde di prima linea.

Alto, chiuso in un impermeabile giallognolo, la bocca forte, il naso aquilino, le mascelle quadre ed uno sguardo chiaro ed energico che gli illumina e addolcisce il volto glabro.

Scende verso le Roccette e tutta la sua persona risalta, possente, di contro il cielo fosco e nuvoloso.

È un tenente colonnello di cavalleria. Mi osserva, sulle controspalline, il numero di compagnia e mi ferma. Mi dice che è il nuovo comandante del secondo battaglione.

A tutta prima noi guardiamo con diffidenza quell'ufficiale di cavalleria che viene a comandare un battaglione di fanteria in trincea ed io penso che non potrà avere molta dimestichezza col fante rozzo e sporco, né potrà comprenderne la psicologia, lui, avvezzo probabilmente ad una comoda guerra di retrovia.

Non è così. In poco tempo egli sa dare un'anima al battaglione, legare gli ufficiali con uno schietto spirito di cameratismo, farsi amare da questi soldati scettici e indifferenti ma assetati di una parola buona, bisognosi di qualcuno che li comandi sul serio, che si occupi di loro, che dia per primo l'esempio del rischio e del disinteresse, che abbia del comando, all'occorrenza, il senso ascetico, terribile, sublime. E tale è il colonnello Piscicelli.

Da quattro giorni il tempo è splendido, ma oggi, verso mezzogiorno, il cielo si è cominciato a caricare di grossi nuvoloni e alle due si è scatenato un violento temporale.

I camminamenti sembrano torrenti e l'acqua limacciosa scorre fra le nostre gambe.

Le voci dell'imminente offensiva nemica si fanno sempre più precise ed insistenti:

ormai nemmeno i comandi le tengono più nascoste.

Nelle retrovie si ammassano truppe e Caporetto è sede di un corpo d'armata di riserva. I bersaglieri saliranno sul Pleka.

Salem telefona, verso le undici, che il battaglione deve scendere, sul far della notte, ai baraccamenti di S. Lorenzo e rimanervi come riserva divisionale.

La quinta compagnia è l'ultima a sfilare. Ci lasciamo indietro le quote. Davanti al comando di brigata, quelli del posto di corrispondenza ci dicono che il generale è stato richiamato dalla licenza e tornerà domattina. I soldati fanno baccano e scendono con fracasso.

A quota 599 ci fermiamo e gli uomini si buttano di peso sulla mulattiera ripida e scoscesa. In fondo gorgoglia il Potoki; sulla nostra destra, nel cielo cupo, il profilo tozzo del Pleka. Sale una colonna di muli. Nessuno si scansa. Le bestie incespicano, i conducenti gridano. Succede un parapiglia.

«Ritti ... Avanti»

Spingo col bastone i soliti lavativi che si lamentano e piagnucolano.

«Meglio in trincea, allora eh, coglione?»

Sul ponte di Selisce la luna squarcia le nuvole e rischiara le rovine spettrali che appaiono e scompaiono dietro le acacie.

Le baracche di S.Lorenzo sono piene di altri soldati: odore caldo di paglia, di polvere, di sudore, di fumo, ma primeggia il puzzo di sudore, sudore, sudore.

«Acido capranica» borbotta Pellitteri.

Sistemo la compagnia sotto i castagni e vado a prendere ordini dal colonnello.

Poi mi allungo anch'io per terra accanto ad una oscura massa di piante.

Mi sveglia il ciclista e me lo vedo li, fra lusco e brusco, con una faccia antipatica che mi smuove i nervi già tirati come le corde di una chitarra.

Non è ancora giorno e mi vuole di gran fretta l'aiutante maggiore. Mi arrabbio, faccio l'atto di cavare la pistola dalla fondina.

«Vattene, maiale, o ti sparo».

Ma lui insiste ed allora io mi alzo e, con i piedi indolenziti, seguo lo svizzero.

Non ho dormito nemmeno tre quarti d'ora ed ho il sonno cattivo.

Quello che orina nella bottiglia mi dice che la mia compagnia deve andare subito in una baracca verso Smast.

« Vuota o piena?»

«Mah! Pare vuota».

«No "pare"; vuota deve essere o io non faccio muovere nemmeno un soldato».

Mi assicura, ed allora mi prendo quel centinaio di poveri cristi e me li trascino, per strade e stradine, nella baracca, vuota per davvero.

Sono le cinque.

Passa per il viottolo un corpulento ufficiale della divisione seguito da un carabiniere:

«Aramengo i reoplani» sbeffeggia "Gigin d'amore".

I due sono già spariti nel fitto dei cespugli.

Raccontano che si è presentato, stanotte, alle nostre linee, un disertore austriaco il quale aveva addosso l'ordine di operazione.

Alle ore 2 bombardamento; ore 6 attacco; ore 8 in fondo valle; ore 12 a Caporetto.

«E noi che ci stiamo a fare?» commenta Pellitteri.

Ma una sensazione strana di inquietudine ci ha già preso un po’ tutti. La calma che ci circonda, la tranquillità almeno apparente dei comandi, la beffarda incredulità alle voci più gravi, la sicurezza ostentata su certe posizioni che noi soli sappiamo quanto siano fragili, il morale della truppa, la inattività pesante in cui sono tenuti i reparti e, nello stesso tempo, lo stato continuo di allarme, gli ordini frequenti e contraddittori ci disorientano e ci opprimono.

Stamani è venuto da noi Malnati. È’ sicuro. Gli austriaci non passeranno. Le posizioni sono inespugnabili.

Intanto l'amico ha mandato il carreggio a Caporetto.

Abbiamo finito di cenare. Sono le dieci. Piscicelli è allegro. Ha raccontato del suo viaggio al Congo ed ora comincia, con trappole e barzellette, a far pagare un po' a tutti da bere.

Pellitteri, che ha già pagato e strapagato, ordina, ad un certo punto, marsala e biscotti per tutti.

«Ma tu ti impegni lo stipendio» osserva, facendo finta di essere preoccupato, l'aiutante maggiore.

«lo? No. Addebita al signor colonnello - dice tranquillamente Pellitteri – Il signor colonnello ha le mostrine a rovescio».

È vero. Il sarto aveva cucito sul bavero, al posto delle fiamme di cavalleria, le mostrine della brigata con i colori sotto sopra.

«Debbo proprio pagare?» chiede, ridendo, Piscicelli col suo vocione di basso profondo. ·

Tutti, solennemente, abbassiamo il pollice.

Chiamano il colonnello al telefono. Intanto noi sturiamo le bottiglie. Ritorna dopo pochi minuti, ma con espressione mutata. E’serio e grave. Lo abbiamo sentito nel corridoio che diceva all'attendente di portargli l'impermeabile, l'elmetto e la pistola.

Tutti ci alziamo istintivamente, ed egli ordina ai comandanti di compagnia di adunare subito i propri uomini, assicurarsi che tutti abbiano la maschera, le munizioni ed i viveri di riserva. Un plotone della mia compagnia deve recarsi all'Osteria a prender contatto con i reparti della 19" divisione.

Egli parla calmissimo. Per ultimo si rivolge a me:

«L'attacco è imminente. Lei occupi immediatamente le vie d 'accesso da Kamno alto e attenda disposizioni. Capito?»

Pianto il mio sguardo nel suo e, semplicemente, sebbene un po' commosso, rispondo:

«Capito».

Il plotone di Pellitteri ha già imboccato la stradina che scende verso l'Isonzo.

Egli mi saluta.

«Addio».

Ho l’impressione fugace che sia destinato al sacrificio.

«Addio»

Gli ultimi soldati passano brontolando.

«Andiamo a mangiare le trote all'osteria».

Poi le voci non le sento più: si perdono nella notte.

Gli austriaci tirano a salve di batteria sullo stradone ed in direzione di Idersko.

Qualche granata cade anche su Kamno e nelle nostre vicinanze. Pioviscola. I nostri pezzi tacciono.

Mi giunge la voce di Piscicelli. Gli vado incontro, ci parliamo nel buio. Vuole sapere come ho disposto i soldati. Raccomanda ancora di tener pronte le maschere.

Il tempo scorre eterno. Arriva trafelato un portaordini di Pillitteri. Hanno dovuto fare il giro del ponte di Idersko; ora sono già in trincea, ma non hanno potuto ancora prendere collegamento.

Nel silenzio notturno i colpi si odono più fragorosi e i sibili delle schegge, fra le foglie ed i rami stroncati, demoralizzano alquanto i soldati che devono star fermi allo scoperto e senza vedere di qui a lì. I tiri si accorciano e si infittiscono. Sono quasi le due.

Improvvisamente si rovescia su di noi, sullo stradone, sulle vie di accesso, su Kamno, su S. Lorenzo, sui ponti al di là dell'Isonzo, dappertutto, un bombardamento spaventoso, terrorizzante. Sono centinaia di bocche da fuoco che battono, frugano, frantumano, polverizzano tutto all'intorno. Ci spostiamo un po' a destra e ci aggruppiamo dietro un rialzo del terreno, fra i rovi e le ortiche bagnate.

Cumbo e Galgano sono accanto a me. L'altro plotone è più giù ed odo parlare il sergente Sciascia.

«Gas! La maschera, la maschera!»

Sentiamo gli occhi e la gola bruciare ed un odore strano di erba marcita e di mandorle amare. Applichiamo le maschere. Corro fra i soldati incespicando, respirando a fatica, sudato, soffocato, per accertarmi che tutti siano al loro posto,

che nessuno si sbandi o si perda. Le schegge, le pallette, i bossoli fischiano e tagliano l'aria greve, e, fra tutto quel fracasso indemoniato, si levano, qua e là, le grida ed i lamenti dei primi feriti.

Le linee telefoniche sono spezzate, i centralini saltati in aria. I portaordini non ritornano più indietro. Siamo isolati, non comunichiamo più con nessuno, né alcun comando ci fa pervenire ordini o disposizioni. Un ordine solo ha ricevuto il battaglione, ieri sera. Resistere, fino all'ultimo. Non ripiegare.

Le tenebre, poco a poco, svaniscono; ai piedi del Mrzli, sull'Isonzo, davanti a Tolmino, biancica la nebbia che sale e ci avvolge lentamente.

Nel cielo una nuvolaglia pallida e pesante. Il bombardamento dura da quattro ore e si fa sempre più intenso, specialmente sulle prime linee.

Non tirano più a gas e ci togliamo le maschere. I nostri volti sono lividi. Il colonnello fa avanzare le altre compagnie ed occupiamo il costone di Kamno alto per sbarrare la strada di Smast.

Pare che davanti a noi, a circa un chilometro, verso Selisce, ci sia un battaglione del156°.

La nebbia sale sempre e si addensa. Non abbiamo ancora udito la nostra artiglieria.

Monte Cucco sembra abbandonato.

Gli austriaci non tirano più. Silenzio.

Improvviso, pauroso, dalla cima del Mrzli, uno schianto ed un vasto, immenso boato.

La mina!

Qualche rado colpo di fucileria a quota 1370. Le montagne sono nascoste, ma si sentono vicine, immobili, solitarie, sprofondate nella nebbia. Si sveglia qualche nostra batteria dal Kuk, dal Kolovrat, da Passo Zagradan.

Ma è un tiro stanco, disorientato.

Il colonnello è inquieto.

Dalla mulattiera scendono, correndo, dei soldati senza armi. Li chiamo. Si voltano, fanno dei cenni sconsolati in direzione della montagna e continuano a correre.

La nebbia si dirada sulle quote. Benvenuto mi indica degli altri soldati sulla mulattiera che scendono a gruppi, isolati, anch'essi senz'armi.

Chiedo al colonnello se devo aprire il fuoco su di loro, ma la nebbia risale e ci avvolge ancora più fitta. ·

Ormai è evidente. Le prime linee hanno ceduto. Gli austriaci hanno superato la zona di sbarramento ed avanzano.

I nostri cuori sono pieni di angoscia.

La nebbia, improvvisamente, si squarcia e ci scopre tutto l'Isonzo, fino al gomito di Volzana. Sullo stradone, all'altezza di Osteria, marciano, inquadrate, verso Idersko, delle truppe.

«l nostri si ritirano».

Ma un dubbio più atroce ci leggiamo nel volto. Sono gli austriaci che avanzano.

Si distinguono i pastrani fino ai piedi e lo strano elmetto ed il passo lungo e rigido. La colonna prosegue, tranquilla e indisturbata. Guardo la fila dei miei soldati, stesa sul bordo del costone, col fucile spianato. Il colonnello fa piazzare le mitragliatrici ed ordina il fuoco. La vallata si empie di cupo fragore. La testa della colonna si arresta, pare vi sia un attimo di esitazione, ma subito si riordina e prosegue. Raffiche di pallottole ci colpiscono d'infilata e alle spalle. Odo il rumore caratteristico delle "Schwarzlose" giù, dalla parte dell'Osteria. Mi cade al fianco l'aspirante Galgano e lo vedo contorcersi sull'erba, spasimando. Povero Scaldarancio! Più in là "Gigin d'amore", colpito alla nuca, sbatte il capo come un passerotto cieco. Piscicelli è avanti a me, lontano, accanto all'arma di destra che ha già perduto i serventi. È seduto sul bordo del costone, poggiandosi sulle palme e spicca fra tutti per quel suo impermeabile giallino. Il sergente Sciascia, sanguinando dal petto e con la bocca devastata da una pallottola esplosiva, si trascina, agonizzante, dietro un albero per poter morire tranquillo in tanto sterminio. Sparo anch'io e tento regolare il tiro sulla colonna che continua ad avanzare sullo stradone di Idersko ed ha già oltrepassata l'Osteria.

Ma, ad un tratto, voci orribili di terrore:

«Eccoli, eccoli. Scendono ... signor tenente».

In alto, da un folto d'alberi e di verruche, spuntano austriaci, a gruppi, a squadre, sicuri, decisi.

«Fuoco, fuoco!».

È un crepitare disperato.

Cadono, si ricompongono, cadono ancora, raffìttiscono, avanzano, sorgono da tutte le parti; il margine del costone brulica di austriaci.

Sono già sopra la settima. Fra gli alberi ci sparano addosso due, tre, infinite mitragliatrici. Ed essi avanzano, avanzano sempre.

Piscicelli è laggiù, solo, seduto, fra una distesa di cadaveri, in mezzo ad un vespaio di fucilate che non riescono ad abbatterlo.

Volge ad un tratto la testa. Il suo battaglione è quasi distrutto. Ed allora si leva in piedi, fa con la mano un largo gesto come a chiamare i pochi vivi e tutti quei morti, si butta contro il nemico, e scompare nel turbine.